La dritta più strana che mi abbiano mai dato per dormire era anche la più efficace: smettere di “tentare di dormire” e, per qualche minuto, provare deliberatamente a restare sveglio. Quel piccolo paradosso ha spento l’ansia, riallineato i ritmi e rimesso in moto un sonno che non vedevo da anni.
La storia nasce da una notte qualsiasi, uguale alle altre: occhi spalancati, pensieri che corrono, il tempo che scivola e l’idea fissa che “devo dormire subito”. Poi arriva un consiglio assurdo, quasi provocatorio: paradosso della veglia. In pratica, invece di rincorrere il sonno, ti concedi qualche minuto per “voler restare sveglio” con calma, buio e occhi chiusi. Sembra un controsenso, ma a me ha ribaltato tutto: l’ansia da prestazione si è dissolta, la mente ha smesso di misurare i minuti e il corpo ha ritrovato il suo ritmo.
Perché funziona quel trucco che pare assurdo
Il cuore del paradosso della veglia è semplice: quando forzi il sonno, alzi la pressione mentale e fisiologica, spingendo il sistema in modalità “allerta”. È come premere l’acceleratore e il freno insieme. Appena smetti di inseguire il risultato e ti concedi di “restare sveglio” senza combattere, togli l’attrito. Il cervello smette di controllare, cala la iper-attivazione e il sistema nervoso si riequilibra. Io l’ho percepito la prima sera come un cambio di clima nella testa: non più corsa contro l’orologio, ma un “ok, se arriva bene, se no pace”. E pochi minuti dopo, palpebre pesanti.
Questo si intreccia con altre dinamiche molto concrete. Intanto, meno luce e meno stimoli salvano la melatonina endogena, l’ormone che orchestra l’addormentamento. Poi c’è la ansia anticipatoria: più ti ripeti “devo dormire”, più il corpo interpreta un obiettivo da raggiungere, alzando il cortisolo. Il paradosso lo disinnesca perché trasforma il compito in non-compito: accetti l’idea di non dormire “per un attimo”, lasciando spazio alla sonnolenza naturale che sale da sola quando non è sorvegliata a vista. A me ha aiutato anche una micro-routine che abbassa i giri: una stanza fresca, buia, silenziosa, una finestra di respirazione lenta (quattro secondi in, sei-otto out), calze leggere ai piedi per non sentire freddo periferico, niente orologi in vista. Non c’è magia, c’è coerenza fisiologica: meno controllo, più condizioni favorevoli.
Il bello è che questo approccio non chiede strumenti strani. Richiede atteggiamento. Funziona, paradossalmente, proprio perché non garantisce nulla. Toglie la gara, riduce il monitoraggio interno e lascia fare al corpo. Su di me l’effetto non è stato “colpo di bacchetta” al primo tentativo, ma una curva breve: la prima notte ho percepito solo un calo di tensione, la seconda ho preso sonno più in fretta, dalla terza il risveglio delle 3:00 si è fatto più raro. Quando capita ancora, riparto da lì: “provo a restare sveglio, tranquillo”. E spesso, puff, buio.

Come l’ho applicato nella vita reale, con accorgimenti semplici
La chiave è stata un protocollo minimo, ripetibile. Spengo tutto mezz’ora prima, schermando schermi e notifiche, perché la luce e le micro-scariche di dopamina mi tenevano in alto. Tengo la stanza a una temperatura neutra, apro due minuti la finestra, bevo un sorso d’acqua, poi luce off. A questo punto parto con il “non-obiettivo”: invece di tentare di dormire, porto l’attenzione su un punto neutro — il contatto del lenzuolo sulla spalla, il peso del corpo sul materasso — e mi dico: “adesso resto sveglio tranquillo per un po’”. Lo faccio davvero, non è un trucco psicologico per fregarmi. Lascio scorrere i pensieri, ma se si accende il cinema mentale, sposto dolcemente il fuoco sulla respirazione e conto solo le espirazioni fino a cinque, poi riparto. Se dopo qualche minuto sale la sonnolenza, non la insegui: la lasci arrivare.
Ho aggiunto due tasselli che hanno moltiplicato l’effetto. Primo, un rituale serale sempre uguale, ma breve: una pagina di carta, tre righe per scaricare le cose da fare domani, così non rimbalzano nella testa. Secondo, una mini finestra di luce del mattino il giorno dopo: cinque minuti di luce naturale appena sveglio. Sembra scollegato, ma dà un segnale chiaro all’orologio interno, migliora la pressione del sonno la sera successiva e, almeno per me, ha chiuso il cerchio. Nei giorni più tesi, aggiungo una respirazione un filo più lunga in espirazione — tipo 4-7 — perché allunga il freno vagale e abbassa i battiti. Niente app, niente timer, solo ritmo.
Quando ho sgarro — caffè tardi, discussione che resta addosso, lavoro fino all’ultimo — non mi punisco. Accetto che la notte possa essere meno pulita e torno al paradosso: “resto sveglio tranquillo”. Il punto è evitare la spirale del “domani sarò uno straccio”. Mi aiuta una frase semplice, ancoraggio cognitivo: “posso funzionare anche se ho dormito peggio”. L’ho testata in giornate piene, e sorprendentemente la mente non collassa se non la spaventi. A valle di qualche settimana, il corpo ha imparato il percorso: calo dell’allerta, routine, paradosso della veglia, e il sonno ha ritrovato la sua strada senza più il mio controllo ossessivo. Non è perfezione — ogni tanto una notte storta arriva — ma non è più un problema antico e ingestibile. È un sistema che so riattivare.